Considerazioni sulle relazioni fra biodiversità e paesaggio e sulla biodiversità nei sistemi forestali.
La biodiversità può essere generalmente considerata come l’insieme degli organismi viventi presenti in un determinato ambiente. Per un’analisi più approfondita è necessario considerare tre distinti livelli: genetica, di specie ed ecosistemica; a questi può essere aggiunto un elemento di indagine più intuitivo e direttamente percettibile, solitamente considerato come un componente estetico, ma in effetti fortemente correlato con la biodiversità: il paesaggio.
Dall’osservazione del paesaggio si può avere un’intuizione della ricchezza di biodiversità in base alle tessere da cui questo è costituito: presenza di formazioni boschive di origine naturale ed artificiale, garighe, pascoli, aree coltivate ed aree incolte che si alternano come in un immenso mosaico. Ci possiamo quindi aspettare una elevata biodiversità su scala territoriale quando il paesaggio perde la sua monotonia e si presenta come un’alternarsi di tessere, talvolta dovute a differenze del substrato, ma soprattutto create da un diverso uso del suolo, in cui la componente antropica gioca un ruolo fondamentale. Infatti, in un territorio ricoperto da sole foreste, possiamo aspettarci una minore biodiversità rispetto ad un ambiente dove la copertura forestale è interrotta da pascoli e da coltivazioni agrarie, e possiamo aspettarci che sia tanto maggiore quando è notevole la presenza di zone di transizione ed è elevata la varietà delle specie agrarie coltivate, sia erbacee che arboree, e quindi la molteplicità di condizioni ambientali create.
L’estensivizzazione delle colture e l’eliminazione delle siepi, la monocoltura praticata con l’uso di sementi con una bassa variabilità genetica e l’uso del diserbo su ampie superfici, sono dei fattori che oltre ad influire sul paesaggio hanno senza dubbio dei riflessi sulla biodiversità, pertanto l’azione antropica da un lato ha favorito una maggiore biodiversità su scala territoriale, con la diversificazione dell’uso del suolo e l’introduzione di specie e cultivar non presenti prima della trasformazione, ma più adatte a soddisfare i suoi bisogni, mentre dall’altro ha creato effetti opposti, omogeneizzando il paesaggio e semplificando eccessivamente i sistemi agrari attraverso la monocoltura su vaste aree, alla cui monotonia delle coltivazioni corrisponde una bassa biodiversità.
Considerando gli ecosistemi forestali, possiamo fare una valutazione approssimata della biodiversità vegetale in base al numero di specie presenti, tuttavia un analisi più ampia e molto più difficoltosa deve considerare tutti gli altri esseri viventi: i decompositori, principalmente rappresentati da batteri e funghi, tutta la mesofauna, che si ritrova nella lettiera e nel legno morto (insetti, nematodi, ecc), e la macrofauna (animali e uccelli) che trova nel bosco riparo ed alimenti.
Anche le formazioni forestali che nell’immaginario collettivo sono emblema di naturalità, in effetti di naturale conservano solo l’origine, in quanto l’azione antropica, esercitata attraverso il fuoco, il pascolo e l’utilizzazione del legname, ha profondamente mutato da secoli la struttura e la composizione originaria, che rende difficile comprendere quale possano essere i reali modelli di riferimento per gli interventi di rinaturalizzazione, che quindi vengono spesso attuati con un’impronta spesso ideologica che poco ha a che fare con il recupero delle formazioni primordiali naturali.
Analogamente a quanto avviene nei sistemi agricoli, anche nelle formazioni forestali l’abbandono colturale o le rinaturalizzazioni, che oggi vanno molto di moda, non possono essere sempre considerate come operazioni che agiscono a favore della biodiversità e della conservazione del paesaggio, specialmente quando si tratta di paesaggi forestali e steppici creati da un uso secolare delle risorse.
Le formazioni boschive della nostra zona sono in prevalenza costituite da leccio, che in passato ha avuto una grande importanza per la produzione della ghianda e del legname, pertanto, per secoli, la rinnovazione dei boschi è avvenuta prevalentemente per via agamica, ovvero in seguito all’emissione dei polloni che si verifica dopo il taglio.
Questa forma di governo (ceduo) ha consentito una maggiore presenza di specie forestali minori, come il corbezzolo e l’erica arborea, che tendono a sparire durante la forte fase di competizione esercitata dal leccio, il cui ombreggiamento non consente neppure la propria rinnovazione se non durante le fasi di decadenza o a causa di un evento catastrofico (incendio); quindi bisognerebbe riflettere attentamente sull’opportunità di effettuare la conversione all’altro fusto, spesso considerata pedissequamente la scelta migliore: infatti oltre a determinare la diminuzione delle specie vegetali e di conseguenza della varietà dei frutti selvatici, potrebbe condurre anche ad una diminuzione del numero di specie animali, la cui presenza è favorita dall’aumentare delle nicchie ecologiche e dall’effetto margine che viene a crearsi dopo i tagli o nelle discontinuità create dalle colture agrarie.
Inoltre, l’abbandono colturale e la conversione verso l’alto fusto dei cedui di leccio che, pur con tempi diversi, portano entrambe ad una struttura monoplana che si mantiene a lungo, non sono sempre funzionali alla conservazione del paesaggio che conosciamo, che appare molto più ricco di cromatismi quanto maggiore e la varietà delle specie vegetali presenti.
Mariano Cocco
Villacidro.info – 12 ottobre 2012
Ecco, se invece di sproloquiare a vanvera per riunioni varie, il glorioso pezzo(detto tocco) usasse gli uomini che ha nel suo staff per diffondere la realtà delle cose, dovrebbe anche riconoscere che i quattro quinti delle trombonate che sostiene quando parla di Vivere la campagna sono grossissime panzane. Ma come tutti i politici preferisce illudersi che un diplomino ottenuto non si sa come cento anni fa, gli dia il diritto di pontificare, mentre i “tecnici” che preferisce lo plaudono pur ridendogli alle spalle!