Il racconto del deputato di Unidos, Mauro Pili, all’uscita dalla visita ispettiva al carcere di Sassari.
“Quando mi presento al carcere di Bancali l’accoglienza non è delle migliori. Del resto i vertici del ministero della giustizia sanno che la visita ispettiva che mi attende non serve per controllare aiuole o sedie a dondolo. In un carcere con capimafia e terroristi internazionali manca direttore e comandante. Sì, assenti direttore e comandante. Cosette per un carcere pieno di capimafia e terroristi internazionali. Attendo con santa pazienza il via libera. I telefoni sono caldi. Solite lamentele per una visita ispettiva non preannunciata. Del resto da che mondo è mondo le ispezioni non si preannunciano con lettera. Mi preleva all’ingresso il comandante in capo, sostituta provvisoria. Non c’è tempo per salamelecchi: avete un braccio di A.S.2 per terroristi internazionali? La risposta non sarà mai un sì esplicito: è il braccio n.8, l’accompagno. Ascensore, 4° piano. I cancelli sono sbarrati, ma tutto è a vista. Entro. Con la consapevolezza che non sarà una passeggiata. Del resto pensavo a qualche detenuto, non ad una vera e propria oasi terroristica dentro il carcere di Bancali. Nessuno ne sapeva niente e così, come denunciai qualche anno fa a Macomer, lo Stato, senza colpo ferire, dopo aver dislocati i più efferati capi mafia, sceglie Sassari per scaraventare sulla Sardegna quelli che vengono ritenuti dai giudici i più pericolosi terroristi in circolazione, quantomeno in Italia. Sull’uscio d’ingresso a passeggio sul corridoio centrale un personaggio uscito colorato di rosso, dai capelli alla barba. Rosso arancione, simbolo non si sa di che. Di certo un elemento di distinzione e riconoscibilità.
Sorride, come se fosse felice della visita. E se devo esser sincero non mi sentivo né a mio agio e tantomeno al sicuro. Quel sorriso prossimo alla follia piuttosto che un benvenuto a braccia aperte. Lo schivo. Avevo deciso di partire da ciò che non si vedeva. E lui era ben visibile e quella colorazione non gli assegnava nei miei parametri di valutazione il massimo dell’importanza. Mi sbagliavo. Quel signore di rosso colorato era l’Imam capo Muhammad Hafiz Zulkifal. Imam di Bergamo e Brescia, tunica bianca e barba lunga tinta di rosso, il capo della cellula italiana di Al Qaeda (18 persone). Ripete: “Sono un predicatore radicale, non un terrorista”. Per lui i reati non sono quelli contestabili ad un ladro di polli: costituzione e organizzazione di associazione terroristica internazionale; finanziamento della stessa organizzazione responsabile della strage al mercato di Peshawar a ottobre 2009 (oltre 100 morti nel giorno della visita di Hillary Clinton) e di numerosi attentati. E poi duplice omicidio (come mandante) e trasporto di valuta all’estero. Passeggia dentro il carcere, a contatto con tutti i suoi compagni di missione. Una cella è chiusa: sbarrata. Due spie rosse sono accese sull’esterno. Chiedo notizie. La risposta è lapidaria: cella distrutta. Come distrutta? Si, distrutta da un detenuto, uno di questi. Faccio aprire. Non è rimasto niente. Mobili divelti e scaraventati a terra. Pensili buttati giù. Non avrebbe gradito un richiamo e avrebbe agito di conseguenza: distruggendo la cella. Arrivo sino in fondo. Cella numero 11. Prima a sinistra. Mi accosto. Il personaggio esile ha i tratti somatici di una mia vecchia conoscenza. Lo guardo fisso negli occhi. Gli dico: noi ci conosciamo. Lui, come il nostro primo incontro fa lo smemorato. “Scusare, io non ricordare niente”. Gli chiedo: sei BOUYAHIA (Hamadi Ben Abdul Aziz Ben Ali (alias GAMEL MOHAMED), classe 1966 tunisino? Lui: Sì. Provo a rinfrescargli la memoria: ti ricordi il carcere Macomer? Farfuglia. “Io non ricordare niente”. E giù con cartella clinica, test e medicine da malato a vita. ha cambiato aspetto in effetti. Barba rossa anche lui, come l’Imam. Provo a ricordargli qualcos’altro. Ti ricordi del tuo amico franco-tunisino Raphael Gendron? Chiedo: c’è anche lui qui? Capisce che non può continuare a far finta di non ricordare. E’aggiornato su ogni dettaglio dei suoi amici: dicono che è stato ucciso. In realtà il suo compagno di cella a Macomer era stato stranamente fatto uscire dal carcere, misteri italiani, e poi ucciso in un conflitto a fuoco con l’esercito di Damasco in Siria. Lui lo sa bene. Continua ad affermare la sua innocenza, nonostante i suoi 22 anni di condanna. Sa che Obama lo ha inserito nella black list dei 30 più efferati criminali jaddisti al mondo, ma lui professa la sua innocenza. Capisce lo spirito della visita e recupera in attimo tutta la memoria. Il colloquio si fa duro e serrato. Dalla memoria riaffiorano dettagli eccessivi, sia di natura personale che in chiave sarda. Preferisco riferirli ai giudici e agli inquirenti, prima di divulgare.
A un certo è il comandante facente funzioni ad informarmi che un un gruppo di tre detenuti, per l’occasione raccolti in un’unica cellula, chiedono di parlarmi. Non ho il tempo di chiedere chi sono. Me lo diranno loro. Il primo a parlare è giovane, lingua italiana. Si presenta: forse mi conoscerà,sono conosciuto come il pugile. Gli rispondo che non pratico la disciplina. Va avanti. Parla speditamente e nonostante la presenza degli agenti e del comandante scandisce la rivendicazione: “Con questa carcerazione aumenta in ognuno di noi la radicalizzazione”. La sintesi: più il carcere è duro e più siamo spinti a reagire, più ci radicalizziamo. Il suo nome è impronunciabile: Abderrahim Moutaharrik, 27enne marocchino, campione di kickboxing, finito in carcere lo scorso aprile con l’accusa di terrorismo internazionale per presunti legami con l’Isis.
Da qui la nome del pugile dell’Isis. Si professa innocente, come tutti. Vittima di facebook. Il suo obiettivo, secondo gli inquirenti, era quello di diventare un “martire di Allah” ed era pronto a farsi esplodere in un luogo simbolo di Roma, in Vaticano o all’ambasciata di Israele. Dalle indagini è emerso come, poco prima dell’arresto, avesse ottenuto una “tazkia”, quella sorta di “raccomandazione” necessaria per essere arruolati tra le milizie di Al Baghdadi. Con lui a detestare il carcere di Sassari un altro veterano: Carlito Brigande. Il peggior carcere del mondo esclama. E’ lui che ha distrutto la cella dieci metri prima. Gli chiedo perchè lo ha fatto. Lui è sintetico: questo peggior carcere del mondo e io il detenuto più buono di tutti.
Un criminale di spessore raccontano le cronache, ricercato dalle autorità della Macedonia, divenuto un jihadista e pronto a farsi esplodere per colpire gli “infedeli”. Viene descritto come esponente dello Stato islamico arrestato per terrorismo internazionale su richiesta dalla Procura di Roma, a conclusione di un’indagine condotta dai carabinieri del Ros. Un profilo che conferma i sempre più evidenti contatti tra la criminalità organizzata e Daesh, in una sorta di osmosi tra il mondo integralista e le reti di narcotrafficanti e mafie internazionali.
Con loro nel braccio 8 di Bancali c’è la colonna sarda. Gli arrestati di Sassari e Olbia. E la colonna proveniente da Rossano. Ad occupare le celle di Bancali Abshir Mohamed Abdullahi, 23enne somalo arrestato per istigazione al terrorismo il 9 marzo scorso a Campomarino. Tra loro anche il primo e per il momento unico migrante giunto con un barcone accusato di terrorismo: Mourad El Ghazzaoui. Con loro anche Yahya Khan Ridi, afghano, 37enne, arrestato a Foggia.
Non bastavano gli 89 capimafia reclusi nel braccio del 41 bis, da qualche settimana il braccio n.8 del carcere di Bancali a Sassari ospita i più efferati terroristi islamici in circolazione in Italia. Quasi il 50% dei 41 dei più pericolosi detenuti islamici in Italia sono nel carcere sassarese. In 18 occupano il braccio al 4 piano del carcere trasformato in Alta Sicurezza 2, quella per il terrorismo internazionale. Un carcere circondariale, normalissimo, trasformato in Alta sicurezza 2 per terroristi internazionali. Tutti in silenzio. Senza nessuna preoccupazione per una carenza cronica e inaccettabile di 150 agenti almeno. Direttori che vanno e vengono. Comandanti in prestito e in aspettativa.
Tutto questo conferma e le aggrava le mie denunce di tre anni fa. Le carceri sarde sono diventate la cajenna perenne di uno Stato che pensa alla Sardegna solo ed esclusivamente per liberarsi di criminali e terroristi. Una situazione inaccettabile e gravissima. La denuncerò con una dettagliata interrogazione parlamentare. Questa bomba islamica terroristica nel carcere di Bancali va smantellata prima che sia troppo tardi. I tre detenuti di Nuoro sono gestiti da nuclei speciali mentre a Sassari tutto è delegato agli agenti di servizio sottratti ai compiti ordinari, nonostante le gravissime deficienze. Per non parlare dell’altro aspetto più grave: nemmeno un interprete. I terroristi islamici possono dialogare come e quanto vogliono. Pianificare ogni genere di azioni. Tanto prima o poi potranno comunicare all’esterno le proprie decisioni.
Due volte al mese possono parlare al telefono con le loro famiglie. Chissà con chi parlano e di cosa parlano. Nessuno li traduce, nessuno sa quel dicono. Le carceri sarde, come denunciai tre anni fa per Macomer, sono alla mercé di vuoti d’organico, mancanza di sicurezza e un rischio quotidiano per gli agenti. E il presidente del Consiglio Gentiloni solo ora si accorge che sono un problema. A Sassari, però, l’Imam di Brescia e uno degli uomini più pericolosi della lista di Obama si tingono la barba di rosso. Ma nessuno pensa che sia un semplice gioco di colori. Si capisce che qualcuno comanda, e qualcun altro obbedisce.
La cellula di Bancali è operativa, con il silenzio e la complicità di molti”.