Foreste di Villacidro: la gestione del bosco

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Tra conseguenze dell’abbandono colturale e la necessità di arginarlo attraverso strumenti adeguati.

Le montagne di Villacidro hanno rappresentato a lungo un’importante risorsa per la popolazione locale, con l’avvento dell’industria, hanno iniziato a perdere sempre più la loro importanza, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove c’è il serio rischio della  definitiva scomparsa delle attività tradizionali ad esse legate, oramai ridotte a pochi allevamenti caprini: in passato la montagna di Villacidro forniva legname, non solo alla popolazione locale, ma anche ai paesi di pianura del circondario, che non disponevano e non dispongono di risorse forestali.
Non meno importanti erano le attività zootecniche, praticate da allevatori locali per quanto riguarda caprini, ovini e bovini, mentre il pascolo suino veniva affidato stagionalmente mediante aste pubbliche a cui partecipavano allevatori provenienti da diverse parti dell’isola. Attualmente, pare che si propenda per un generico utilizzo ambientale e turistico-ricreativo, di cui non si hanno segnali di un effettivo sviluppo, specialmente in termini di ritorno economico a vantaggio della popolazione, con l’aggravio che la  perdita di interesse per le attività tradizionali ha portato all’abbandono  della selvicoltura, i cui principi ispiratori hanno nel tempo subito un’evoluzione legata alla crescita delle conoscenze scientifiche ed alla richiesta crescente dei nuovi servizi richiesti al bosco dall’attuale società: dalla vecchia concezione, mirata all’ottenimento della  massima produzione di legname, si è passati ad una maggiore attenzione per gli aspetti idrogeologici, naturalistici, paesaggistici e sociali del bosco. Qualunque sia l’interesse prevalente, l’abbandono delle pratiche  selvicolturali porta allo sviluppo incontrollato del bosco, che potrebbe non essere più in grado di assolvere efficacemente le sue funzioni e sicuramente comporterebbe l’avvilimento dell’utilità che questo ha e continuerà ad avere per l’uomo.

In un bosco abbandonato si instaurano forti processi competitivi fra le diverse specie e fra individui della stessa specie che, con l’accentuarsi dell’ombreggiamento esercitato dagli alberi più vigorosi, conducono alla morte dei soggetti più deboli, con conseguente aumento del materiale combustibile: l’aumento del materiale combustibile costituisce, specialmente nelle zone più accessibili, un facile innesco per gli incendi e riduce l’efficacia dell’azione di  spegnimento. Nei cedui di leccio invecchiati, cioè con un’età di molto superiore al turno di utilizzazione,  si assiste anche ad una considerevole riduzione della biodiversità vegetale: tutte le specie forestali minori, ed in particolare il corbezzolo, si avvantaggiano della condizioni di luce che si verificano dopo il taglio colturale, e quindi queste vanno progressivamente diminuendo fino a quando il leccio, a distanza di 40 e più anni dal taglio (a seconda della fertilità del suolo), diventa la specie dominante assoluta, portando alla morte di tutte le altre specie, relegate al piano inferiore delle vegetazione ed impedendo la sua stessa rinnovazione. L’abbandono dell’azione selvicolturale porta anche alla perdita delle produzioni legnose e dei prodotti “minori”: è noto  che nei boschi sottoposti a taglio di ceduazione si ha una maggiore produzione di funghi, tanto é che nel Comune di Borgotaro, in Provincia di Parma, sono  stati programmati interventi forestali per favorire la produzione dei funghi porcini, ai quali è stato riconosciuto il marchio IGP, facendoli diventare, da secondari, uno dei prodotti principali del bosco. In pratica, attraverso la selvicoltura e le diverse applicazioni da questa previste ed ampiamente sperimentate, è possibile indirizzare il bosco verso una prevalente attitudine (produttiva, di difesa, ricreativa ecc.) senza comprometterne la sua insita multifunzionalità.

Per rendere nuovamente produttiva la nostra montagna è indifferibile  l’attuazione di una seria pianificazione, che faccia superare la lunga fase delle promesse di sviluppo, oramai stantia, ed impossibile da mantenere senza adeguati strumenti tecnico-applicativi .

Il Piano di Assestamento o di Gestione Forestale è lo strumento tecnico-applicativo che le Scienze Forestali mettono a disposizione per rendere reali tali impegni: si tratta di un documento tecnico complesso, con validità decennale, che ha inizio con le fasi di rilievo della vegetazione ed inventariali, e finisce per stabilire la cronologia degli interventi necessari al conseguimento degli obbiettivi. In una moderna concezione dell’azione di pianificazione, gli obbiettivi non possono essere imposti, ma devono nascere dalla sintesi degli studi funzionali alla stessa e dalle proposte avanzate attraverso processi partecipativi che coinvolgano la popolazione in modo reale, cosa non trascurabile se si considera che questa ha ancora il pieno diritto al godimento dagli Usi Civici.

Mariano Cocco

Villacidro.info – 4 dicembre 2011

Per un approfondimento è possibile consultare la seguente PRESENTAZIONE

12 COMMENTI

  1. speriamo che questa volta chi ci amministra,capisca il vero potenziale dei nostri boschi.complimenti a mariano cocco,ti inviterei in alto adige dove queste cose le fanno da anni e non capisco perchè quì non ci sia questa mentalità.

    • Ti ringrazio per i complimenti, sembra che abbia colto che la mia formazione forestale ha avuto inizio, nell’anno 1981/82, nella meravigliosa “Val di Fiemme”, luogo di produzione del “legno di risonanza”. I Trentini hanno un’incredibile capacita di gestire le risorse ambientali, ma anche i Toscani non sono da meno e praticano effettivamente la gestione ambientale sostenibile, un termine da molti usato e abusato, senza capire lontanamente in cosa consista.

  2. bell’articolo… chiaro e semplice… chissà se riusciremo un giorno ad avere un serio Piano di Gestione Forestale, ma soprattutto se riusciremo ad applicarlo in maniera rigorosa senza che il politico di turno voglia apportare delle modifiche o deroghe con l’esclusiva finalità di perseguire obiettivi elettorali di breve periodo…

  3. Penso che la gestione sostenibile sia il rispetto dell’ambiente. Xche si pensa sempre allo sfruttamento, i boschi sono belli come li crea la natura, non vedo xché l’uomo debba metterci sempre le mani. E poi siamo sicuri che da noi si possano applicare le metodologie applicate altrove?

    • Riguardo alla gestione sostenibile bisogna ricordare che per essere tale deve soddisfare tre principi cardine, ovvero la sostenibilità deve essere: ecologica, economica e sociale.
      Pertanto per correttezza non si dovrebbe parlare di “gestione (o sviluppo) sostenibile” quando ci si riferisce alla “sostenibilità ecologica”, alla “sostenibilità economica”, alla “sostenibilità sociale”, considerate in modo singolo o come combinazione binaria dei tre tipi di sostenibilità.
      La sola “sostenibilità ecologica” , non implica la sostenibilità della gestione, specialmente se perseguita solo attraverso azioni rese possibili dagli aiuti finanziari e/o male accolte dalla popolazione locale. Non è una questione di pignoleria nell’uso della terminologia, ma sono diverse le implicazioni da un punto di vista pratico.
      Alla seconda affermazione (o domanda?) replico con uno stralcio di una intervista fatta a Pietro Piussi sulla rivista Sherwood:
      -Domanda- “Riscontriamo, lavorando in redazione, che si parla sempre più spesso di selvicoltura dal punto di vista teorico e politico e sempre meno da quello tecnico-pratico e operativo. Condivide questa sensazione?
      -Risposta- Condivido questa sensazione e penso che questa tendenza dipenda da vari fattori: la scarsità di tempo per il lavoro tecnico sul campo, i limiti posti da leggi e regolamenti all’adozione di criteri diversi da quelli prescritti e dalla indeterminatezza degli obbiettivi di una selvicoltura genericamente multifunzionale e talvolta ideologizzata ma di cui nei singoli casi è difficile definire in modo univoco la funzione prioritaria e quindi le tecniche più appropriate da adottare…….
      -Domanda- Secondo lei, oggi c’è più bisogno di selvicoltura o di selvi-cultura?
      -Risposta- Sono necessarie entrambe. L’abbandono colturale non conduce ad un mitico “equilibrio della natura” ma ad una serie di processi legati alla vita e alla morte degli alberi che restano fuori controllo da parte dell’uomo e possono avere riflessi a livello di territorio sui corsi d’acqua, sulla diffusione di parassiti, sul carattere degli incendi boschivi, anche sulla sicurezza del traffico automobilistico. E’ preferibile fare lavorare prima i boscaioli (o altri operatori) piuttosto che dopo la Protezione Civile. E’ anche necessario però che i non “addetti ai lavori” si rendano conto di come funzione un ecosistema forestale e di come agiscono coloro che lavorano nei boschi.”

      Riguardo alla validità dei metodi da adottare, se si intendono i metodi selvicolturali, posso dire che i principi base della selvicoltura non cambiano, in quanto si basano sulla comprensione dei meccanismi di riproduzione degli alberi (ceduo e fustaia) e sulla capacità di dosare la luce, attraverso i tagli, per regolare i fenomeni di concorrenza (tipo di trattamento) ed ottenere la rinnovazione naturale ecc. Se invece si intendono i contenuti del programma di gestione e le specificità da valorizzare, è chiaro che da noi le cose sono molto diverse dall’area Alpina, ma le operazioni da compiere per realizzare un serio piano di gestione hanno la stessa validità sia al nord, sia al sud che nelle isole: infatti, nella PRESENTAZIONE (in coda all’articolo) non si parla in astratto, ma si fa specifico riferimento alle nostre problematiche, alle nostre produzioni e ai nostri aspetti socio-culturali.

    • Dalla tua affermazioni è evidente che non hai afferrato che sono i Villacidresi a doversene occupare.
      Mi rendo conto che dove il lavoro svolto a diretto contato con l’ambiente ha perso importanza prevalgono le ideologie: purtroppo queste sono molto più facili da trasmettere e sostenere poiché non richiedono, impegno, studio, lavoro pratico ed una buona dose di costanza (non si smette mai di imparare e migliorare). MaxCidro ha giustamente notato che in Alto Adige le cose sono diverse: per avere un’idea di cosa lo abbia portato a tali conclusioni consiglio una visita al sito della “Magnifica Comunità di Fiemme”, che non ha mai perso il diretto contato con il territorio ed ha sviluppato un’economia ancora basata sulle risorse ambientali rinnovabili, che cura sotto tutti gli aspetti (ecologico, economico e sociale). Le nostre risorse ambientali sono diverse e dovremmo sviluppare la nostra specificità, ma se pensiamo che nessuno debba “toccarle” e ne facciamo un luogo museale, ignorandone il loro stato e gongolandoci nel contemplarle, stiamo di fatto predisponendole all’azione di qualche pazzo furioso armato di cerino (“a s’accabbada perdeusu scatteddu e cadinu”). Il controllo, la manutenzione del territorio e la valorizzazione delle risorse, sono possibili solo mantenendo le attività tradizionali (i gitanti della domenica non possono essere sufficienti e tanto meno efficienti), ma proprio per evitare che queste avvengano con modalità che dall’utilizzo sconfinino nello sfruttamento, è necessario che queste vengono pianificare e coordinate in modo razionale con l’ausilio di strumenti tecnici adeguati.

  4. “Il segreto del bosco vecchio”, “Barnabo delle montagne”, ed altri scritti di Buzzati, mi fanno pensare con più corrispondenza al rapporto che legava i vecchi uomini delle nostre montagne al territorio, quel rapporto fatto di contrasto ma anche di rispetto, quel rispetto di chi non sputa nel piatto dove mangia,,poco, ma mangia.
    Riempitaci la mente di Fabbriche, Energie Alternative, Sviluppo Sostenibile, Ecologia, Smaltimento Rifiuti, Piani di sviluppo, Controllo del Territorio, ci dimentichiamo troppo spesso di chi ,prima di noi, quelle montagne le ha vissute e ci è vissuto, e ce le ha lasciate belle come sono. Credo che la Philosofia che reggeva la loro attività fosse riassunta in una semplice frase
    “LASCIALO AI TUOI FIGLI” e tutto ciò che sapeva di pura rapina veniva escluso.

    • In effetti la gestione sostenibile veniva attuata anche in passato, ancora prima che il termine fosse coniato: il bosco forniva lavoro, energia, alimenti ecc.(aspetto economico), soddisfaceva quindi i bisogni della popolazione (aspetto sociale) e chi partecipava alla gestione era consapevole che se avesse consumato tutto oggi non avrebbe mangiato domani (aspetto ecologico).
      Il periodo di sfruttamento più pesante dei nostri boschi ha coinciso con le forti richieste di energia per soddisfare le esigenze di legname per l’industria: per alimentare la fonderia di Villacidro, nata nell’anno 1721 ed ancora attiva nell’ottocento, vennero consumate le risorse forestali di Villacidro in un periodo di 50 anni, tanto che si dovette ricorrere all’approvvigionamento del legname dai Comuni limitrofi. Al momento non sono emerse fonti documentali che indichino quanti tagli fossero stati effettuati fra l’anno 1721 e l’anno 1771, anche se si può presumere siano stati almeno due, in quanto prima si usavano turni di utilizzazione inferiori ai 25 anni, mentre un documento sull’estimo della Grassa riporta che, nell’annata 1856/57, era stata stimata una disponibilità di ghianda che consentiva di concedere il pascolo a 3.420 capi suini. Questo fatto indica, oltre alla grande capacità di rigenerazione dei nostri boschi ed un potenziale produttivo da non sottovalutare, che in quel periodo c’era un sistema di controllo per evitare che la rinnovazione del bosco venisse disturbata. A tal proposito un documento, del 15 luglio 1886, riporta la risposta ad una richiesta di pascolo, in località Villascema, certificata dal Sindaco a favore di un certo Tognetti. In tale risposta il Prefetto esprimeva parere negativo in quanto era stato ultimato il taglio nel 1884 ed aggiungeva il seguente commento: “è uno dei consueti documenti di favore per il proprietario del fondo” (questo fa anche presumere che all’epoca il bosco di Villascema era privato).
      I piani d’assestamento non sono un’invenzione moderna: il primo è stato attuato in Italia nel 1886 (Foresta di Vallombrosa -Toscana) e sono diventati obbligatori per i boschi pubblici con il RDL 3267/23, una legge fatta bene ed ancora di attuale validità. Dove i piani di gestione non sono mai stati attuati, alla loro mancanza ha sopperito la grande conoscenza del territorio e delle risorse che era stampata nella mente di chi lavorava in montagna, sia come operatore che come controllore. Oramai queste persone sono quasi del tutto scomparse con il loro bagaglio di conoscenze e purtroppo ci hanno lasciato poche informazioni cartacee che sarebbero utili per una futura gestione. Oggi esiste una giungla di norme e ogni intervento esige una trafila burocratica che effettivamente costringe il tecnico a dedicare più tempo alle carte che al lavoro di campagna, anche se dispone di strumenti che gli consentono di effettuare analisi approfondite in modo rapido. Il piano di assestamento, che ancora oggi si basa sulla conoscenza dettagliata delle risorse acquisite sul campo, si rende necessario anche per semplificare le procedure burocratiche, in quanto una volta approvato consente di effettuare tutte le operazioni previste nel decennio di validità senza dover richiedere l’autorizzazione per ogni singolo intervento.

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