Sempre più spesso si preferisce commentare ed esprimersi in modo offensivo. Il web parla chiaro: si preferiscono argomenti “banali”.
Cresce l’attenzione nei confronti della “democrazia 2.0”, ovvero di un sistema che permetta ai cittadini di esprimersi, via web, su molte questioni di interesse pubblico. Che la rete possa essere uno strumento utile a rinnovare dal basso la democrazia è un’idea sempre più diffusa. Questa è una concezione della rete intesa come spazio aperto di partecipazione interessata, informata e consapevole. Ma è davvero auspicabile vivere in un paese dove i temi più significativi vengono puntualmente snobbati e dove ci si concentra quasi esclusivamente su fatti di poco conto per dar sfogo ad una sequela di commenti, per lo più anonimi, sterili e spesso offensivi? La comunicazione 2.0 può essere considerata un privilegio acquisito, per le generazioni cresciute con sistemi di comunicazione analogici, la normalità per le nuove e nuovissime generazioni. Ma ora che il nuovo sistema di informazione ha una solida base di condivisione già si manifestano le prime falle. L’utilizzo del commento come strumento di rivalsa contro un sistema sentito come estraneo e distante sta minando l’effettiva valenza della compartecipazione in rete. La risoluzione del problema andrebbe cercata da ambedue le parti. Il Giornalismo dovrebbe rivedere le proprie priorità informative e la propria organizzazione interna, per offrire ai lettori uno spazio compartecipato che permetta di interagire dall’interno in una piattaforma informativa intesa come bene comune e non come semplice bersaglio. Gli utenti, da parte loro, dovrebbero sentirsi meno protetti dall’anonimato del web e, mutuando una metafora dal mondo della musica, intendere la propria opinione come voce interna ad un coro piuttosto che come un assolo dissonante pronto ad accendere la miccia del dissenso fine a se stesso.
Le persone non commentano i fatti gravi perché se uno dice la sua, in certi casi si pensa che questo ultimo sappia qualcosa in più ,le persone possono fare delle supposizioni senza scrivere ne nomi ne cognomi o sopranomi ma queste vengono subito interpretate male come e già successo in passato quindi e meglio tenerselo per se se non si vogliono avere problemi
Concordo con molti punti dell’articolo, ma se il giornalista cede egli stesso alla tentazione di offrire un’informazione, superficiale e/o distorta dei fatti oggettivi, con la finalità di spostare consensi popolari in una certa direzione o per ottenere un alto indice di ascolto, sia che i commenti siano anonimi o palesi, lo spazio partecipativo risulta alterato in origine e il coro non potrà che stonare e perdere l’utilità sociale. Il dilemma se è nato prima l’uovo o la gallina è sempre presente: è il giornalismo che condiziona gli ascoltatori o sono gli ascoltatori che condizionano il modo di fare giornalismo? Il dissenso fine a se stesso è indotto dall’anonimato o l’anonimato lo fa semplicemente emergere?
L’anonimato totale sul web non esiste dal momento che ognuno ha un IP rintracciabile, a meno che vengano usati sistemi di protezione particolarmente complicati e comunque non alla portata di tutti. Non c’è nulla di male nel firmarsi con un nick name, dal momento che l’uso di pseudonimi è sempre stato utilizzato anche da giornalisti e scrittori di fama.
La verità è che da un lato si attacca l’anonimato internettiano perchè si vorrebbe limitare la libertà del web, dall’altro poi ci sono quelli che vorrebbero nomi e cognomi per poter spettegolare sui fatti privati anzichè rimanere sul merito della questione.
Perchè si discute di fatti stupidi?Perchè c’è la precisa volontà di ridurre internet a mero passatempo anzichè a fonte inesauribile di informazione e controinformazione.